Le donne lo sanno. Sanno già da piccole quanto il rosa sia un colore delicato, quanto le gonnelline e i fiocchetti siano tanto carini ma più scomodi da portare rispetto ai bermuda. Sanno che la loro esistenza in quanto donne sarà sempre così, sempre allo specchio, sempre su un piedistallo, sempre da ammirare, sempre da agghindare, ma che sarà sempre più scomoda di quella dei maschi.
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Lettera al nuovo testimone del cinema italiano
Caro Pif,
anzi no voglio chiamarti con tuo vero nome, Pierfrancesco. Quindi ricomincio.
Caro Pierfrancesco,
volevo scriverti per ringraziarti. Ringraziarti di essere stato, qualche anno fa, testimone di un prodotto televisivo che ti viene voglia di vedere ancora oggi, magari in una giornata come questa, quando vorresti vedere qualcosa su Yuotube e il genere non lo sai nemmeno tu; per aver sviscerato con la tua handycam, argomenti, personaggi , più o meno seri, come fossi stato alla Vucciria di Palermo a scegliere gli ingredienti per la caponata; per aver fatto un pensierino su Eleonora Abbagnato, ma aver capito che non era aria (chissà che avrai pensato poi quando si è messa con Balzaretti), e invece non averci provato per niente con la Balti.
Grazie per aver deciso, un giorno, poi chissà come ti è venuta l’idea, di provare a posare la tua telecamerina da inviato, e fare un film. Un film vero, un lungometraggio. Renderti testimone di altro, rendere noi testimoni di altro, di qualcosa di bello. Forse per questo (e non solo per questo) noi dovremmo ringraziare anche Ettore Scola. Forse è stato lui ad aver visto in te il neorealista dei giorni nostri e ad incitarti.
E chi ti biasima. Hai fatto bene ad ascoltarlo e hai fatto bene a provarci.
Grazie perché con i tuoi toni comici e delicati, con i tuoi lungometraggi, dici qualcosa più pungente del fico d’india che cresce sulle scogliere della tua stupenda isola, alla quale ti ispiri sempre. Quell’isola aguzza e accogliente al tempo stesso che tanto ti piace narrare, come è giusto che sia. Si capisce che è per te una musa ispiratrice.
E come ogni grande regista che si rispetti a te piace averne, di muse intendo. Si capisce da questi tuoi primi lavori quanto tu ami la bellezza, quella vera, quella che non mente, ami le donne belle vere, che sono come la tua terra e che possano valorizzare al meglio quella terra e i tuoi film.
Ma proprio come i grandi registi hai bisogno di una donna forte e determinata che sia tua fonte d’ispirazione nella tua vita di tutti i giorni.
Grazie per “La mafia uccide solo d’estate”, perché nel raccontarcelo hai avuto la delicatezza e il rispetto che solo un siciliano può avere e al tempo stesso l’amarezza e la fermezza che solo un siciliano può avere.
Grazie per “In guerra per amore”, perché un po’ come Benigni mi fece commuovere fingendo di divertirsi nonostante il fucile puntato alle spalle, tu lo hai fatto in sella ad un asino che vola (pur sapendo che il pubblico italiano, almeno non tutto, agli asini che volano, ci crede poco).
O la va, o la spacca
Se c’è una cosa che mi fa impazzire recita una canzone di Mina. Ecco se c’è una cosa che mi fa impazzire (e non ce n’è una sola) sono i gruppi di categorie che seminano ansia e terrore.
Quelli composti da secchioncelli che si studiano a memoria manuali e regolamenti, quelli che sembrano una pagina di Faq.
Iniziamo ad imbatterci in questi leader dell’affanno già dalle scuole dell’obbligo, ma quasi non ci facciamo caso, tendiamo a non dar loro peso. E’ dall’università che essi si materializzano in branco. Si appostano all’ingresso dell’aula d’esame, magari un po’ defilati, chiusi a cerchio con il chiaro messaggio di voler escludere quelli che entrano alla “o la va, o la spacca”; ma al tempo stesso proprio quella forma nidificata del gruppo fa si che il messaggio da veicolare sia “noi possediamo il Santo Graal”.
Dalla formazione a testuggine si staccano sovente dei messaggeri o pseudo infiltrati che hanno il compito di instillare nel resto degli ignari sopraggiunti, dubbi, ansie, paure, l’idea di aver commesso mancanze e imprecisioni, che inevitabilmente porteranno il soggetto in questione all’autodistruzione.
Lo scopo è uno solo: accrescere il numero di coloro che andranno ad elemosinare informazioni, cercheranno di captare segnali per poi decidere di fustigarsi o abbandonare l’aula.
Sia chiaro che questi veri e proprio gruppi dell’ansia sono composti prevalentemente da persone che si riuniscono fisicamente o virtualmente in vista di un evento in cui in genere è prevista un’ammissione o una valutazione.
Eh si perché mentre un tempo queste riunioni massoniche si componevano eccezionalmente prima di un esame, una prova o un concorso, ora seminano terrore soprattutto su Facebook. Ed è lì che danno il loro meglio.
Facebook è il loro terreno fertile, quello in cui l’ansia si propaga più di quanto si propagherebbe una macchia d’olio sulla tua camicetta nuova (magari il giorno stesso dell’esame).
Ho elaborato l’angoscia che mi danno questi gruppetti sadici proprio stamattina, quando dopo essermi iscritta qualche giorno fa ad un gruppo categoricamente chiuso su Facebook, ho deciso di disiscrivermi.
Ho capito che io sono una alla “o la va, o lo spacca” e sono sempre stata così, in tutto.
A farmi prendere coscienza di ciò ci voleva un concorsone pubblico (cui a dir la verità sono sempre stata molto restia a partecipare), atteso, agognato, bramato e sospirato da anni, al quale con la mia mia filosofia, ho deciso di partecipare. Ho deciso di buttarmi perché penso di avere la competenza nella mansione, non tanto nel concorso, perché penso che la PA in questione se puta caso prendesse me per quel ruolo avrebbe assunto una risorsa che potrebbe dare un quid in più. Stop. So che le possibilità sono limitate, che i posti a livello nazionale sono pochi, che c’è chi potrebbe avere più conoscenze e soprattutto una preparazione teorica più alta della mia. So che il bando è formulato in maniera tale da far fuori più gente possibile, che solo Highlander l’ultimo immortale arriverà in fondo, e che ogni giorno si inventano una postilla nuova per sfrondarci e correggere meno compiti possibile.
Ma non fa niente o la va, o la spacca. Passi la preparazione, non mi sono mai tirata indietro dallo studio teorico, ho sempre cercato di captare sensazioni, gli umori dei professori, la difficoltà delle domande. Ma non ho mai messo un limite alla provvidenza.
Io se fossi uno dell’ufficio personale incaricato di assumere gente per un ruolo di funzionario dell’amministrazione, più che fare un concorso, mi intrufolerei in un gruppo di questi e andrei a guardare quello che scrivono i candidati. Non escluderei né chi non ha fatto il master né chi ha una laurea nella classe X piuttosto che Y. Escluderei chi fa domande cretine, chi va nel panico perché non capisce un requisito, per un indirizzo che non risponde o per una mail non arrivata.
Ecco io se dovessi assumere qualcuno gli farei fare una prova selettiva per saper stare al mondo, uno scritto per prendere la vita con filosofia e un orale per testare la capacità di adattamento. Escluderei a priori chi si fa i pippotti mentali e chi fa terrorismo psicologico sugli altri.
E il dottorato, quello ne terrei conto si, ma solo preso in resilienza.
Un anno a pois
Stamattina WordPress è stato il mio grillo parlante. Ma a pensarci bene anche la blogger di Bellezza rara è stata il mio grillo parlante.
WordPress mi ha mandato una mail con il report annuale del mio blog, fatto di una delicatissima grafica e un motivetto che faceva girare in sequenza le date dei miei post del 2015. Si fermano al 14 maggio e poi ricominciano in loop. E io altrettanto in loop continuavo a fissarle cominciando da capo. 2, 13, 27 gennaio e poi di nuovo tutti i mesi costantemente fino a maggio. Il mese del mio trentatreesimo compleanno. Il mese in cui, forse, non ho trovato più la leggerezza di scrivere.
La stessa leggerezza che ho trovato stamattina leggendo il post di Valentina, un post morbido e senza pretese, senza un titolo che tira le somme, morbido anch’esso: “Il 30 sera”.
Ecco il mio anno è stato un po’ tutto un “30 sera”, senza botti, a tratti sommesso, in attesa di, a tratti triste perché mi sono guardata indietro e ho visto quello che ha perso (e ho perso tanto, soprattutto in termini di presenze e affetti); ma guardo anche proprio lì davanti a me e vedo che c’è qualcuno che questo 2015 l’ha iniziato standomi accanto e lo sta finendo insieme a me, ancora più vicino, nonostante da me, in alcuni momenti di questi 365 giorni, a chiunque sarebbe venuta voglia di scappare o almeno di tapparsi le orecchie per non sentirmi, proprio come quando scoppiano i botti a Capodanno.
Quest’anno io non farò botti a Capodanno, ma ne sentirò il frastuono come mai negli anni precedenti. Dentro e fuori di me, come durante tutto l’anno. Abbraccerò per la prima volta mio padre a mezzanotte e non starò lì a cercare campo o un posto tranquillo della festa per chiamarlo (che sennò poi si preoccupa).
Mi mancherà mia madre ma la sentirò più vicina che mai e guarderò il primo cielo dell’anno nuovo sapendo che lì dietro qualche luce colorata c’è qualcuno in più che sorride guardandomi.
Penserò alle mia amiche, fide compagne delle ultime 20 notti di fine anno. Penserò ai loro brindisi, ai loro sogni, alle loro paure e ai loro occhi che brillano.
E allora se un ho un buon proposito per me o piuttosto un augurio, è di ritrovare quel piacere e quella leggerezza nello scrivere che ho sempre avuto. Unavitapois è un po’ lo specchio di me stessa, più ricco sarà il prossimo report, più io avrò avuto qualcosa da dire.
Spero di potervi raccontare di cambi di marcia inaspettati ma voluti fortemente, di posti nuovi e gioie casalinghe, di traguardi raggiunti e di conferme.
Allora auguri a Unavitapois, a me e a tutti voi!
Spos(t)arsi
Ci sono parole, termini, frasi che nell’arco di una vita possono assumere per noi significati e suscitare in noi emozioni e sensazioni diverse.
Alla soglia (anzi proprio proprio entrando visto che settimana prossima è il mio compleanno) dei 33 anni ce n’è una che in modo particolare mi fa sobbalzare dalla sedia: SPOSARSI.
Non si sa per quale assurda ragione ma alcune parole quando siamo piccoli le sentiamo spesso e ci sembrano innocue e naturali, ad un certo punto della nostra vita quasi musica per le nostre orecchie, tanto che quando le udiamo i nostri lobi e i nostri padiglioni auricolari si ringarzulliscono e si vestono a festa anche loro.
Poi ad un certo punto, il buio. Sposa che? Spo- sar-si. Oh my God! La tua compagna del liceo si sposa, tua cugina minore si sposa, la figlia sfigata di un’amica di tua madre idem, e tu che ti credevi fighetta e ambitissima stai lì a fissare lo schermo del tuo pc dove scorre a lato un banner che pubblicizza la nuova collezione di abiti da sposa di Jenny Packam. E questo può avere un solo significato: che almeno una volta nell’arco degli ultimi 10-15 giorni tu di tua spontanea volontà un’occhiata gliel’hai data. Il perché non lo sai neanche tu ma una recondita e sommessa voglia di ricongiungere quella parola al tuo vocabolario usuale in fondo in fondo c’è.
E vai un po’ a ricacciare fuori la storia delle impostazioni culturali, dell’educazione, quelli legati alla religione.
Tu quella parola l’hai snobbata per anni, ma vuoi tua nonna che ti chiede di farlo presto così che lei, che non ti vede in bianco dalla Prima Comunione, possa commuoversi sull’altare prima che sia troppo tardi, vuoi quella tua lontana parente che non ti vede da anni e ti dice “ma come sei cresciuta…quanti anni hai?” e quando tu rispondi sorniona “32” (pensando che in realtà che venga carpito come un 16) ti guarda e non favella, sta parolina magica ti ronza nelle orecchio peggio della zanzara che alle 3 di notte.
Nel frattempo torni a casa da tua madre e quella partecipazione della già citata cugina minore è lì sul mobile del salotto in bella vista, manifesto della tua noncuranza al tempo che passa e alla tua sfacciata presunzione di potertene fregare. {Ma come non ti ricordi di quando tua cugina ora ad un passo dall’altare, imparava a parlare e tu facevi già le piroette sui pattini a 4 ruote? o quando tu andavi all’università e lei non aveva ancora neanche le chiavi per rincasare quando voleva? }
E allora dici vabbè me ne vado e smetto di fissare le inziali intrecciate con un filo d’argento sulla busta della partecipazione di tua cugina e tu ti intrecci si, ma col traffico della metropoli. Lì mentre con una mano nella borsa e una sul volante cerchi di sbrigliare il tuo auricolare intrecciato a sua volta pure attorno alla tua catenina con l’inziale (la TUA, da sola), squilla il telefono. E’ il responsabile della tua società che ti convoca per un colloquio in sede. Sembra urgente. Corri come una pazza da un capo all’altro della città mentre intorno a te ci saranno centinaia di donzelle della tua età in trepidazione perché di qui a qualche giorno vanno a SPOSARSI, che corrono come te da un capo all’altro della città per definire trucco e parrucco, ritirare l’abito, fare la manicure.
Il tuo trucco e parrucco consiste invece in un po di lip gloss rosato e una scrollata a testa in giù ai capelli sotto l’ufficio del capo. Sali facendo finta di non essere trafelata e ti accolgono in una stanza simile a quella degli interrogatori della squadra mobile. E lì’ di fronte ad un pc e a qualche documento che porta il tuo nome ti propongono di cambiare. Ti propongono qualcosa che porta nel nome la parola indeterminato.
Insomma ti propongono di SPOSARE l’azienda. Finalmente qualcuno ti ha chiesto di sposarlo, è giunto il momento fatidico anche per te, e pur immaginandotelo diverso magari un po’ più romantico, accetti quasi incredula.
Poi esci un po’ scossa ti guardi allo specchio dell’ascensore e la tua gioia iniziale si trasforma in un “Oddio, e adesso che faccio? Questi mica mi vorranno intrappolare così? Io non mi sono fatta intrappolare mai, anzi si dal tacco nel sampietrino l’altra sera a Trastevere, e questi mi fanno sposare l’azienda a tempo indeterminato?! Ma se neanche la luce pulsata che faccio alla gambe riesco a definirla epilazione permanente?”.
Così entri in macchina e nel lungo tragitto che ti separa da casa e pensi che forse è arrivato il momento di non trovare più scuse per scappare, che poi tanto se scappi dalle cose, corri sempre il rischio che il tacco ti si ficchi nel sampietrino. Che poi spesso neanche si ha il coraggio di scappare, il più delle volte ci si sposta, giusto un po’ più in là per non farsi prendere.