Giuro di aver stilato l’elenco delle mie “muse ispiratrici” molto prima che Sienna Miller tornasse alla ribalta del gossip per il presunto flirt con Brad Pitt. Si proprio lei che sulle copertine dei giornali c’era finita anni fa più per il suo amore travagliato con Jude Law che per i suoi successi cinematografici. E per il suo stile e per la sua classe innata aggiungerei io, che incarnava la perfetta Cohacella’s girl come oggi non ce ne trovano più.
Continua a leggere
Archivi categoria: Personaggi
La pazza gioia di Valeria
Questo è un post a caldo, fatto di un’emozione e una riflessione appena sfornate.
Ho appena visto i 3 minuti scarsi del discorso di premiazione di Valeria Bruni Tedeschi per il David di Donatello come miglior attrice protagonista de “La pazza gioia”.
Belli veri: Olivia Palermo e consorte
Basta immaginarli così, il giorno delle loro nozze, in un’intima tenuta a Bedford alle porte di New York: lei in un semplicissimo completo composto da un maglioncino in cashemere color crema e un’eterea gonna in tulle con un profondo spacco davanti decorato di ricami floreali; ai suoi piedi un paio di Manolo Blahnik blu elettrico, proprio le stesse con cui Mr. Big si dichiarò a Carrie nel finale di Sex and the city.
Tradizionalmente Volo
Voi dovete sapere, e anche Fabio Volo dovrebbe saperlo, che l’11 febbraio 2011 (data palindroma portatrice, a quanto pare, di sfighe immonde), mi cappottai sulla SS1bis che da Tarquinia mi portava al lavoro a Viterbo, poco dopo le 8. A quell’ora, esattamente tutte le mattine, ero sintonizzata su Radio Deejay e ascoltavo “Il Volo del mattino”.
Proprio in quel momento credo ci fosse Volo che dissertava con Spank sulla vita, sull’amore, o forse parlava dei festini della signora Fletcher. Mentre io vedevo passarmi davanti gli ultimi 28 anni della mia vita, in sottofondo quel simpaticone di Hello Spank intonava insieme a Pavarotti “Buongiorno a questo giorno che si sveglia oggi con te, buongiorno al latte ed al caffè…”.
Chiusi gli occhi in quella carambola che mi è sembrata infinita e quando li riaprii, viva e vegeta e senza un graffio nonostante fossi sottosopra, Fabio Volo era ancora lì a tenermi compagnia.
Così da quel giorno la mia esistenza è rimasta legata a doppio filo a quel programma, che non a caso continuo a seguire, felice che dopo lo stop di qualche tempo abbia riacquisito nuova linfa, e un po’ anche a Fabio Bonetti, in arte Volo, di cui continuo a seguire le gesta, sia professionali che private.
Si perché a me lui sta proprio SIMPATICO, lo dico a gran voce, proprio come quando espressi senza mezzi termini la mia ammirazione e simpatia per un altro personaggio scomodo come Selvaggia Lucarelli.
A volte sembra quasi che chi ce la fa, chi si distingue dalla massa, chi arriva alla meta, abbia rubato qualcosa a qualcun altro. E quindi questi due personaggi, partititi uno da Brescia e l’altra da Civitavecchia, con decisione, intelligenza, caparbietà e supponenza se vogliamo (e poi magari anche altro, ma fondamentalmente a me poco interessa), sono tra i personaggi che più stanno sugli zebedei all’Italia popolare, per non parlare di quella radical chic.
Ma soffermiamoci alle ultime gesta di Fabio Volo, ovvero la serie “Untraditional”. Una meta serie, completamente incentrata sul suo anchorman, ambientata tra una Milano (tanta Milano) bella, pulita, in cui tutto funziona, e New York (se ne è vista ancora poca ma buona), le due città tra cui Volo fa la spola.
Nella serie, in onda su Nove ogni mercoledì, Volo non è altro che un uomo, già di successo, ma con un sogno ancora da realizzare: girare una serie tv ambientata a New York, un prodotto, come afferma lui stesso, “che in Italia si propone come una novità, ma che in realtà, nei paesi anglosassoni, è un genere già molto diffuso”.
A renderla vincente è il suo voler raccontare se stesso non raccontando veramente se stesso. Fabio porta in scena la compagna (Johanna, senza snaturarla tanto che da islandese parla solamente in inglese), la propria transizione da tombeur de femmes a padre di famiglia, Brescia la sua città natale, la sua trasmissione a Radio Dejay, insomma buona parte del suo vero essere, che poi è ciò che ha conquistato il pubblico e indispettito gli haters.
A fare da contraltare a tutto questo una serie di situazioni, personaggi, incontri, di pura fantasia che contribuiscono a rendere frizzante la comedy: tra tutti spicca l’esilarante Raimondo, milanesissimo agente/amico di Fabio, figura a metà strada tra Lucignolo e il grillo parlante; la ex Paola, interpretata da una procace Paola Iezzi, che si pone quasi come stalker ed esatto opposto dell’eterea Johanna; l’amico cantante Giuliano, al secolo Giuliano Sangiorgi, che si rivela un attore quasi poliedrico e molto ironico; le Donatella, che compaiono di tanto in tanto tipo gemelline di Shining.
E poi ci sono i cammei che Volo sfrutta benissimo in ogni puntata, a partire da Emma Marrone che al “Volo del mattino” dice di sentire le voci, passando per la sopracitata Selvaggia Lucarelli che fa il filo a Raimondo, Roberto Vecchioni, Fabio Fazio, Francesco Renga, solo per citarne alcuni.
Lasciatemi dedicare una riga in più a Carlo Freccero, autore Rai e mio amato prof. universitario che si presta fedelmente ad interpretare il professionista istrionico che è anche nella vita.
Lo so che a volte definire qualcuno “tuttologo” tende quasi a sminuire le sue reali capacità e le sue vere abilità, ma Fabio Volo si pone nello spettacolo/editoria/cinema italiano, veramente come tale.
E non perché sia un marziano, quando in realtà di personaggi come lui soprattutto in America ve ne sono eccome, quanto perché nel nostro paese tutto ciò non è contemplato. E’ più facile, quando non si comprende qualcosa o qualcuno, criticare piuttosto che dire “Bravo, ce l’ha fatta”.
Non me ne vogliate, ma anche in questa prova io mi sento di dire a Fabio Volo, “Bravo, ce l’hai fatta”.
Dio salvi la regina
PROLOGO. Era l’estate del 2003 e io partii alla volta della capitale in Inglese per una vacanza studio. Ad accompagnarmi all’aeroporto, oltre mia madre, mio cugino allora undicenne che mi salutò incitandomi: “Vai e conquista il principe William, così sarai la nuova regina d’Inghilterra”. Storia vuole che William non lo incontrai, ci è arrivata prima Kate, ed io non diventerò regina consorte. Tutto ciò però non ha scalfito i miei rapporti con i Windsor, continuo a seguire le loro gesta da lontano, e pur non essendo entrata nelle grazie della regina Elisabetta II, continuo ad essere affascinata dalla sua figura e da tutto ciò che intorno ad essa ruota, non solo dalla corona che le cinge il capo ma anche da tutti i pensieri, le ansie, i timori e le gioie che dentro quella testa saranno affiorati del 1952 ad oggi.
In mio soccorso è arrivata The Crown, la serie attualmente disponibile su Netflix creata e scritta da Peter Morgan , di cui tanto si sente parlare e soprattutto scrivere in questi giorni.
Non sono una divoratrice seriale, non ho Sky (eccezion fatta per Sky go che scrocco a mio padre solo per vedere Masterchef e poco altro), non sono di quelle che in pausa pranzo inforca gli auricolari per guardare l’ultima puntata della serie cult e non starò qui a fare l’ennesima recensione in cui consigliarvi di guardare The Crown.
Sono una che va letteralmente pazza per le biografie, specie se femminili, che ha adorato un libro dal titolo “Amanti e regine. Il potere delle donne”, che ha visto un’infinità di volte i film interminabili e melensi sulla principessa Sissi, tutti i biopic su Lady D e ha persino tentato, con scarsi risultati, di trovare un capo e una coda ad un mal riuscito Grace di Monaco con una poco credibile Nicole Kidman.
Ebbene oggi posso affermare di essere narcotizzata dal piglio dolce e deciso di Claire Foy nei panni di Lilibeth, dallo sguardo a volte fiero a volte perso, ma sorprendentemente innamorato di Matt Smith che veste magistralmente i panni del Principe Filippo, dal fare libertino della principessa Margaret e dall’incedere traballante ma sicuro del Winston Churchill di John Lithgow.
Ultimamente sono distratta, raramente qualcosa riesce a catturare la mia attenzione, ed è indicativo che io riesca ad immergermi così completamente in una storia, in un luogo, in una narrazione. Durante i primi tre episodi di The Crown (divorati in poco più di 24 ore) ho dimenticato nell’ordine: la tisana alla zenzero che bolliva sul fuoco, farmi la piastra ai capelli dopo essere uscita dalla palestra in stile spaventa passeri, guardare il meteo per decidere che cosa indossare la mattina seguente; con ciò oltre a dirvi che oggi sembro uscita da un film di Tim Burton, vorrei ringraziare sir Morgan per avermi aperto le porte, non tanto di Buckingham Palace, ma di Clarence House, o meglio della dimensione più intima della famiglia Windsor- Mountbatten (mi viene quasi da immaginare un ipotetico citofono con su scritto i nomi).
Di avermi confessato che il chiacchierato zio Edoardo VIII (noto soprattutto per aver abdicato al trono per sposare la pluri-divorziata americana Wallis Simpson) chiamava Elisabetta Shirley Temple, che la principessa Margaret (della quale mia nonna custodiva la foto nell’album di famiglia dal giorno in cui mio nonno le fece da guida alle tombe etrusche del mio paese) aveva una storia clandestina con lo scudiero del padre, che la regina madre non è stata solo quella vecchina bassa a cui piaceva alzare il gomito.
APPENDICE. D’altronde è così, nell’arte come nella vita, a conquistarti sono le narrazioni che funzionano, quelle ricche di particolari, non solo di colpi di scena e momenti salienti. Ecco, The Crown è proprio così, ruota intorno ad una corona, ma se di essa non fossero messe in risalto le pietre incastonate, a nessuno interesserebbe del momento dell’incoronazione.