PROLOGO. Era l’estate del 2003 e io partii alla volta della capitale in Inglese per una vacanza studio. Ad accompagnarmi all’aeroporto, oltre mia madre, mio cugino allora undicenne che mi salutò incitandomi: “Vai e conquista il principe William, così sarai la nuova regina d’Inghilterra”. Storia vuole che William non lo incontrai, ci è arrivata prima Kate, ed io non diventerò regina consorte. Tutto ciò però non ha scalfito i miei rapporti con i Windsor, continuo a seguire le loro gesta da lontano, e pur non essendo entrata nelle grazie della regina Elisabetta II, continuo ad essere affascinata dalla sua figura e da tutto ciò che intorno ad essa ruota, non solo dalla corona che le cinge il capo ma anche da tutti i pensieri, le ansie, i timori e le gioie che dentro quella testa saranno affiorati del 1952 ad oggi.
In mio soccorso è arrivata The Crown, la serie attualmente disponibile su Netflix creata e scritta da Peter Morgan , di cui tanto si sente parlare e soprattutto scrivere in questi giorni.
Non sono una divoratrice seriale, non ho Sky (eccezion fatta per Sky go che scrocco a mio padre solo per vedere Masterchef e poco altro), non sono di quelle che in pausa pranzo inforca gli auricolari per guardare l’ultima puntata della serie cult e non starò qui a fare l’ennesima recensione in cui consigliarvi di guardare The Crown.
Sono una che va letteralmente pazza per le biografie, specie se femminili, che ha adorato un libro dal titolo “Amanti e regine. Il potere delle donne”, che ha visto un’infinità di volte i film interminabili e melensi sulla principessa Sissi, tutti i biopic su Lady D e ha persino tentato, con scarsi risultati, di trovare un capo e una coda ad un mal riuscito Grace di Monaco con una poco credibile Nicole Kidman.
Ebbene oggi posso affermare di essere narcotizzata dal piglio dolce e deciso di Claire Foy nei panni di Lilibeth, dallo sguardo a volte fiero a volte perso, ma sorprendentemente innamorato di Matt Smith che veste magistralmente i panni del Principe Filippo, dal fare libertino della principessa Margaret e dall’incedere traballante ma sicuro del Winston Churchill di John Lithgow.
Ultimamente sono distratta, raramente qualcosa riesce a catturare la mia attenzione, ed è indicativo che io riesca ad immergermi così completamente in una storia, in un luogo, in una narrazione. Durante i primi tre episodi di The Crown (divorati in poco più di 24 ore) ho dimenticato nell’ordine: la tisana alla zenzero che bolliva sul fuoco, farmi la piastra ai capelli dopo essere uscita dalla palestra in stile spaventa passeri, guardare il meteo per decidere che cosa indossare la mattina seguente; con ciò oltre a dirvi che oggi sembro uscita da un film di Tim Burton, vorrei ringraziare sir Morgan per avermi aperto le porte, non tanto di Buckingham Palace, ma di Clarence House, o meglio della dimensione più intima della famiglia Windsor- Mountbatten (mi viene quasi da immaginare un ipotetico citofono con su scritto i nomi).
Di avermi confessato che il chiacchierato zio Edoardo VIII (noto soprattutto per aver abdicato al trono per sposare la pluri-divorziata americana Wallis Simpson) chiamava Elisabetta Shirley Temple, che la principessa Margaret (della quale mia nonna custodiva la foto nell’album di famiglia dal giorno in cui mio nonno le fece da guida alle tombe etrusche del mio paese) aveva una storia clandestina con lo scudiero del padre, che la regina madre non è stata solo quella vecchina bassa a cui piaceva alzare il gomito.
APPENDICE. D’altronde è così, nell’arte come nella vita, a conquistarti sono le narrazioni che funzionano, quelle ricche di particolari, non solo di colpi di scena e momenti salienti. Ecco, The Crown è proprio così, ruota intorno ad una corona, ma se di essa non fossero messe in risalto le pietre incastonate, a nessuno interesserebbe del momento dell’incoronazione.
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